È uscito lo scorso agosto il prezioso volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo che racchiude gli atti dell’omonimo convegno promosso dalla Fondazione Aglaia e tenutosi a Firenze l’11 giugno 2022. Sebbene in poco più di un anno il panorama politico e legislativo sia mutato tornando “drammaticamente indietro nel tempo”, il volume impone una riflessione necessaria e attuale sulla politica delle immagini dei beni del patrimonio culturale italiano. Con semplicità, Manacorda e Modolo indicano la via verso un futuro dove la “maldestra confusione” tra bene culturale materiale e bene immateriale (ma anche tra beni culturali mobili ed immobili) sarà finalmente superata e ci si renderà conto che le riproduzioni delle opere d’arte pubbliche nel pubblico dominio sono, esse stesse, patrimonio comune e come tali devono essere trattate.
Manacorda, in apertura, detta il ritmo di marcia delle argomentazioni a sostegno della liberalizzazione dell’uso delle immagini con un decalogo di “pro” a cui tutti i capitoli successivi, che passano in rassegna diversi punti di vista (diritto, economia, università, associazionismo, ecc.), inevitabilmente ritornano. Il primo e fondamentale argomento a favore, riconosciuto anche a livello internazionale, è il legame tra il patrimonio culturale, le sue immagini e la collettività che ha, quindi, diritto all’utilizzo delle riproduzioni delle opere che le appartengono. Oggi, in Italia, invece, l’utilizzo delle immagini è libero soltanto per il pubblico, tanto che, chiosa nel suo intervento Grazia Semeraro, “viene fatto di chiedersi perché lo sfruttamento commerciale debba ritenersi legittimo per le attività svolte dal Ministero stesso (come la campagna pubblicitaria Open to Meraviglia n.d.a.) e non possa esserlo per tutti, a partire dalle imprese coinvolte nei servizi e nella promozione del patrimonio”. Dopo tutto sono i soldi dei contribuenti quelli che lo Stato spende per conservazione e tutela!
Questa visione proprietaria del patrimonio culturale e delle sue riproduzioni, frutto di orientamenti di matrice statalista, cozza con le spinte internazionali che vedono nei beni culturali dei cultural commons. Se il bene fisico è, per forza di legge, imprigionato dal diritto dominicale, ci ricorda Modolo, la riproduzione digitale dello stesso bene è, per sua natura, “un mezzo a vocazione fortemente inclusiva, in quanto capace di abilitare forme di fruizioni ‘non rivali’ che consentono al bene culturale di manifestare compiutamente e concretamente la propria essenza di ‘bene comune’… senza per questo mettere a repentaglio l’esistenza del bene stesso.” Il digitale rappresenta “quella forma ‘ampliata’ di accessibilità al patrimonio culturale digitalizzato che gli istituti dovrebbero impegnarsi a garantire attraverso il ricorso a licenze di Open Access”. Tentare di imprigionare la riproduzione libera con canoni e tariffe, sostengono gli autori, non giova alla promozione del patrimonio italiano e ad insegnarlo è la storia: quando la legge Nasi del 1902 introdusse per la prima volta nell’Italia unita un canone per la riproduzione delle immagini i grossi fotografi voltarono le spalle al Bel Paese e a soffrirne furono i piccoli fotografi che rendevano note, con i loro scatti, la località dimenticate. Per queste ragioni nell’articolato della successiva legge Rosadi-Rava del 1909 non si trova più traccia del canone. Così accade anche oggi nei piccoli centri, a seguito dell’adozione del Tariffario del Ministro Gennaro Sangiuliano (decreto ministeriale dell’11 aprile 2023), dove si rischia di distruggere il legame tra enti locali e territorio.
Per la Giunta della Federazione delle Consulte per l’Archeologia: “la digitalizzazione del patrimonio culturale è un obiettivo strategico di straordinaria rilevanza … a vantaggio della formazione, della ricerca, della tutela e della valorizzazione del patrimonio archeologico”. Le immagini del patrimonio culturale rappresentano un “dato grezzo” di supporto alla ricerca scientifica, ma soggetto ad una doppia barriera: la tutela autoriale del creatore del dato (di settanta anni) e la tutela dei contenuti prodotti quando si tratta di immagini del patrimonio culturale. Questi ostacoli sono d’intralcio alla ricerca storico-archeologica, come spiegano nel volume Daniele Malfitana e Antonino Mazzaglia.
Essere sordi al richiamo della liberalizzazione equivale ad essere ciechi verso il futuro. Il disposto degli attuali articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, di cui Andrea Brugnoli passa in rassegna le recenti modifiche “dal basso” , “appare del tutt[o] superat[o] dall’evoluzione tecnologica e dalle modalità di diffusione dei media digitali: il web è saturo di immagini di beni culturali, specie i più celebri” come ricorda anche Massimo Fantini. Il futuro sembra essere costellato da licenze CC0, ossia contratti di licenze prive di obblighi reciproci tra le parti, che non sono “da interpretare come una forma di rassegnata rinuncia”, ma come “un tentativo di comprensione dei cambiamenti portati dalla comunicazione prevalentemente digitale” tale da non compromettere “la fluida divulgazione delle immagini dei beni culturali stessi”.
Il volume di Daniele Manacorda e Mirco Modolo raccoglie gli atti di un convegno svoltosi prima dell’insediamento dell’attuale governo e arriva in un momento politico propizio. Mentre il Ministero della Cultura impone tariffari per la riproduzione dei beni culturali pubblici, studiosi, ricercatori e attivisti per la cultura libera necessitano, oggi più che mai, di ricordare e ricordarsi che il patrimonio culturale trova il proprio valore nella condivisione. Parafrasando Giorgio Resta, gli autori del volume ci ricordano come oggi giorno “nel campo dei beni immateriali la libertà di accesso e fruizione sia la regola e la sua limitazione l’eccezione”. Su questo spunto la politica dovrebbe tornare riflettere.
Giuditta Giardini
Avvocata, dal 2019 lavora come consulente per l’Antiquities Trafficking Unit presso il Manhattan District Attorney’s Office. È anche dottoranda dell’Università Cattolica di Milano, nel 2019 ha ottenuto un LL.M. presso la Scuola di Legge della Columbia University. Ha lavorato per Unidroit sulla Convenzione dell’Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati. Nel 2017 ha fatto parte della delegazione di Unidroit al primo G7 Cultura. Dal 2023 è Chair del Comitato Affari Legali di ICOM International. Scrive regolarmente per ArtEconomy24 de Il Sole24Ore.
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Immagine: Capriccio with ruins of the Roman Forum, di Claude Lorrain, Public domain, da Wikimedia Commons