È di pochi giorni fa la notizia che il ministro della cultura Dario Franceschini ha finanziato con due milioni di euro il progetto della Digital Library italiana, nato alla fine dello scorso gennaio con un decreto che dà mandato all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) di coordinare i programmi di digitalizzazione del patrimonio culturale di competenza del MiBACT. Racconta Franceschini: «Noi abbiamo 101 archivi e 46 biblioteche oltre alle raccolte di immagini di tutte le soprintendenze e gli istituti in cui c’è tutta la storia censita e fotografata del nostro territorio, monumento per monumento, pezzo per pezzo. Ecco, la Digital Library punta a mettere a sistema questo patrimonio sconfinato», e prosegue: «Vogliamo evitare che tale patrimonio diventi oggetto di trattativa di ogni singolo istituto con i giganti della Rete, con le grandi fondazioni, per esempio quelle americane, con cui si possono certamente avere dei rapporti di collaborazione, ma trattando da una posizione paritaria». Presumibilmente il ministro si riferisce all’accordo con Google siglato dal suo predecessore Sandro Bondi, dal quale non si direbbe siano arrivati chissà quali risultati.
Tutto bene, insomma? Non proprio. Leggendo nemmeno troppo tra le righe il discorso di Franceschini, traspare il concetto che la digitalizzazione serva a guadagnarci su: il materiale posseduto da archivi e biblioteche è infatti «un bene ineguagliabile di enorme valore culturale che nell’era della rete ha anche un valore economico considerevole». Potremmo insomma dire che i due milioni ora stanziati sono visti come un investimento per ottenere chissà quali ricavi per il futuro, il che significherà che i documenti digitalizzati non avranno con ogni probabilità una licenza libera: potremo (forse) consultarli, ma non certo usarli per costruire qualcosa di nuovo. Purtroppo il concetto di licenza libera continua a non essere nelle corde dei nostri governanti, nonostante il fatto che non è nemmeno chiaro il modello di business che si vorrebbe seguire. Anche la relazione che accompagna il decreto non entra per nulla nel dettaglio, né illustra le motivazioni culturali e tecnico-organizzative dell’iniziativa. Non è compito del ministro scendere a tale livello? A parte che anche le motivazioni politiche indicate sono minime, un progetto di questo tipo che dovrà coordinare centinaia di realtà indipedenti pur sotto il cappello del MiBACT necessita sin dall’inizio di un modello di interoperabilità a prova di bomba, se si vuole sperare di avere un risultato finale che non sia la semplice somma dei compitini di ciascuna biblioteca o archivio. Questo servirebbe anche al MiBACT con i suoi proclami di cooperazione alla pari con i grandi attori mondiali, ma parrebbe come se l’interoperabilità emergesse automaticamente dal lavoro futuro. Certo, se il materiale fosse rilasciato con licenza libera si potrebbe ovviare almeno in parte al problema con lo sforzo di volontari per la riorganizzazione dei metadati delle opere: ma come dicevo questo non sembra essere il caso.
Speriamo insomma che il progetto – proprio perché non ancora partito, e quindi senza troppi vincoli – possa essere migliorato e reso più libero, per diventare un modello virtuoso di condivisione della conoscenza.
nell’immagine: Manoscritto originale dei “Periodi Istorici e Topografia delle Valli di Non e Sole” (1805) di Jacopo Antonio Maffei, conservato presso l’Archivio storico comunale di Revò. Foto di StefanoC – opera propria, public domain, via Wikimedia Commons.